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corona virus, coronavirus, COVID-19, diritto del lavoro, licenziamento, SARS-CoV-2, sicurezza sul lavoro
Come abbiamo avuto modo di spiegare nell’articolo “Vaccino Covid-19 VS Licenziamento“, il medico competente non ha potere di prescrivere alcuna obbligatorietà vaccinale in difetto di una legge; egli ha il dovere di informare il lavoratore circa l’opportunità dei vaccini che, se del caso (in base al rischio specifico nell’attività lavorativa), sono “messi a disposizione” dal datore di lavoro (art. 279 T.U. 81/08).
In questo articolo torniamo sull’argomento per giungere a discutere della fattibilità che il lavoratore sottoscriva un impegno a vaccinarsi ai fini dell’assunzione: soluzione non praticabile, illegittima. Vedremo il motivo.
Il dibattito sorto di recente in ordine alla cessazione del rapporto di lavoro è dunque risolvibile in un nulla di fatto, perché chi sostiene che si possa procedere a licenziamento del lavoratore che non intende vaccinarsi presuppone, a sostegno, il rilascio di un giudizio di inidoneità alla mansione espresso dal medico competente che, tuttavia, non può basare l’inidoneità sul vaccino attualmente facoltativo. Diverso discorso avviene, infatti, per quelle mansioni su cui il legislatore ha disposto l’obbligatorietà del vaccino se poniamo la riflessione su altre vaccinazioni (in quanto attualmente non c’è obbligo per il Covid-19), come ad esempio l’antitetanica per determinate mansioni (nell’esempio siffatto i conduttori di macchine agricole, personale sanitario, ecc.). In mancanza di una legge che disponga la vaccinazione Covid-19, nemmeno una inidoneità temporanea può essere formalizzata dal medico competente: il giudizio di idoneità alla mansione è espresso in relazione ad aspetti sanitari individuali del lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria, con correlazione alla specifica mansione dello stesso, e non già per il fatto che tale lavoratore possa essere considerato a maggior rischio nel contesto epidemiologico attuale finché il vaccino s’intenda facoltativo come nel quadro normativo vigente.
Nei soli casi di rischio biologico specifico per la mansione si potrebbe invece ragionare sulla sospensione cautelare del lavoratore per azione del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c., ma qualche dubbio resta in mancanza di una giurisprudenza che non si è ancora pronunciata. Potrebbe essere infatti una scelta azzardata, soprattutto sul piano retributivo laddove la sospensione cautelare provochi effetti anche sulla retribuzione e il giudice non riconosca validi i criteri di determinazione della sospensione, cioè il mero timore di contagio seppur alla luce di uno scenario di rischio ben noto (Covid-19).
Superata quindi l’impraticabilità, o per meglio dire l’illegittimità, di un eventuale licenziamento del lavoratore che non intende vaccinarsi, non potendolo dichiarare inidoneo alla mansione per tale sua libera scelta di non vaccinarsi – al di là del pensiero individuale di ciascuno di noi sull’importanza della vaccinazione –, c’è chi ha iniziato a sostenere che si possa imporre il vaccino su base contrattuale ma non è così. In altre parole, con riferimento alle nuove assunzioni c’è chi ha ipotizzato che sia lecito siglare un patto nel contratto di lavoro o parallelamente ad esso, con cui il lavoratore accetti di farsi somministrare il vaccino Covid-19 in una sorta di condizione necessaria ai fini dell’assunzione. Orbene, tale possibilità non può essere condivisibile in quanto provoca (o può provocare, a seconda delle circostanze) un vizio del consenso perché il lavoratore si trova a dover accettare per essere assunto pertanto il consenso non è realmente libero, spontaneo, ma condizionato dall’esigenza di instaurare il rapporto di lavoro. I vizi del consenso rendono annullabile l’accordo viziato. Inoltre, il presupposto su cui regge l’avanzata proposta di stipula di questo negozio giuridico, è che esso attenga a un diritto disponibile e qui si rileva l’errore di fondo. La salute è un diritto inalienabile, fondamentale, non cedibile, protetto dalla Costituzione: si tratta di un diritto indisponibile e, pertanto, non può formare oggetto di un patto tra le parti.
Si risolve così, ancora una volta con un nulla di fatto, la questione tanto dibattuta in questi giorni e che riassumiamo complessivamente sotto tre profili (licenziamento, sospensione, patto di vaccinazione):
1) il medico competente non può esprimere un giudizio di inidoneità per il solo fatto che il lavoratore non è vaccinato;
2) la sospensione cautelare, ipotizzabile solo negli ambienti a rischio biologico da esposizione “professionale” (cioè specifica, legata all’attività e alla mansione) e non generica pari alla popolazione non lavorativa, non è affatto detto che venga poi apprezzata favorevolmente da un giudice in caso di ricorso;
3) la stipulazione di un patto tra lavoratore e datore di lavoro per vincolare il lavoratore a vaccinarsi non è lecita in quanto la salute è diritto indisponibile e non può essere trattata mediante accordi contrattuali ma il lavoratore è libero di decidere se vaccinarsi o meno. Si tratta quindi di patto “nullo” perché avente ad oggetto un diritto non disponibile; peraltro, se ci si soffermasse solo sul vizio del consenso sarebbe comunque “annullabile” se l’impegno del lavoratore a farsi somministrare il vaccino fosse stato sottoscritto perché da esso dipendeva l’opportunità dell’assunzione presso l’organizzazione di lavoro proponente.
La vaccinazione resta comunque una importantissima misura di contrasto alla diffusione del Sars-CoV-2 e al contagio da Covid-19